Diverse motivazioni spinsero la Russia a uscire dalla Prima Guerra Mondiale nel 1917.
Il paese affrontava una grave crisi dovuta a perdite devastanti: oltre sei milioni tra morti, feriti e prigionieri.
I soldati al fronte, influenzati dalle idee bolsceviche, iniziavano a rifiutare di combattere, mentre le infrastrutture erano devastate e la disoccupazione cresceva rapidamente.
L’8 marzo 1917, un imponente sciopero a San Pietroburgo, che coinvolse oltre 90.000 tra operai e soldati, portò alla caduta dello zar Nicola II, che abdicò il 15 marzo.
Il potere passò al Governo provvisorio, guidato dal socialista Aleksandr Kerenskij, che tentò di mantenere la Russia nella guerra.
Tuttavia, le sue offensive militari si rivelarono disastrose, aumentando il malcontento tra la popolazione e i soldati.
Questa instabilità permise ai Bolscevichi, guidati da Lenin, di prendere il potere con la Rivoluzione d'Ottobre del 7 novembre 1917.
La Repubblica russa fu sostituita dalla Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa e il nuovo governo iniziò subito le trattative per uscire dal conflitto.
Il 3 marzo 1918, la Russia firmò il Trattato di Brest-Litovsk con la Germania e gli Imperi Centrali, sancendo ufficialmente il suo ritiro dalla guerra.
Come conseguenza, la Russia fu costretta a riconoscere l’indipendenza di diversi territori dell'Impero, tra cui la Polonia, l’Ucraina, la Bielorussia e i Paesi Baltici, che passarono sotto l’influenza tedesca.
La pace con gli Imperi Centrali, però, non portò stabilità: il Paese precipitò rapidamente in una guerra civile tra i bolscevichi e le forze contrarie al nuovo regime.
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